Visibile vs Invisibile, Fare vs Essere

Di una transizione, uno dei rischi più grandi è fingere che sia una crisi passeggera.

Tradotto: non dare dignità e importanza a un richiamo profondo, e, al contrario, cedere lo scettro alle paure e alle zone di comfort più o meno rassicuranti.

È come essere gestiti dal cervello rettiliano e comportarsi in modo reattivo, il che può includere altre 2 strategie rettiliane:

  • Fermarsi: restare immobili, in stato di shock, senza nemmeno riconoscere la necessità di un cambiamento.
  • Lottare: cominciare a fare ricerche spasmodiche e infruttuose di aziende e annunci di lavoro, magari rispondendo a decine di offerte in un solo giorno, in modo puramente reattivo.

Un’altra lettura – più introspettiva – di “fingere che non sia nulla” è che il Sé dominante schiacci la spinta di un Sé emergente, non lasciando spazio, sabotandolo, ingigantendo i rischi e le paure associate e diminuendo l’importanza del richiamo stesso.

Perché è proprio di questo che stiamo parlando: la transizione consiste precisamente nel passaggio dal fare attuale (la parte visibile) a un’identità ancora in potenza (la parte invisibile), che spinge per diventare nuova realtà, nuova vita, nuova routine.

In modo più sottile, l’errore di cui parliamo oggi può anche tradursi in azioni apparentemente più razionali, più decise, più socialmente “accettabili”, ma totalmente incongrue e infruttuose: cioè applicare una logica lineare, rifiutare un punto di vista sistemico e gestire questo doppio salto quantico dal fare all’essere al nuovo fare in modo lineare e transazionale.

È come persistere nel voler spiegare tutto con la geometria euclidea cento e vent’anni dopo la teoria della relatività speciale di Einstein.

La Transizione non è un semplice “tracciamo una linea retta dal punto A al punto B”, no: è un atto creativo, trasformativo, generativo, in cui ciò che prima non c’era, sarà; ciò che prima era valido, sarà sostituito da ciò che ora è più prezioso per la nostra nuova direzione, progetti, identità.

Per uscire dalla metafora, significa non semplicemente cambiare azienda adottando un focus esterno di controllo, non incolpare colleghi, il mercato, i capi, la guerra, la pandemia o qualsiasi altra cosa per un malessere interno, non rispondere a decine di annunci per poi emergere frustrati e rafforzati nell’idea che un cambiamento radicale non sia possibile.

Non parliamo di un semplice cambio di pelle del serpente, ma di una metamorfosi da bruco a farfalla, cioè di un profondo lavoro introspettivo.

Il potere delle transizioni risiede nel fatto che, alla fine, non siamo semplicemente cambiati, ma letteralmente trasformati.

Alcuni esempi di transizioni?

Il manager che decide di lasciare il proprio lavoro e diventare un coach a tempo pieno, un consulente, un imprenditore. Bene, uscendo dalla transizione, non sarà più un dipendente, ma non sarà neanche il coach/consulente/imprenditore che aveva in mente. Sarà diventato una versione più arricchita della sua identità sognata. Da cosa? Da tutti quegli aspetti che all’inizio della transizione non poteva nemmeno immaginare, né visualizzare pienamente.

Usiamo un altro esempio, come la trama di un famoso film: Pretty Woman.

Edward Lewis (Richard Gere) è un potente uomo d’affari di New York, compra e smantella aziende in difficoltà, vendendone gli asset per profitto. L’incontro con la prostituta Vivian Ward (Julia Roberts) cambierà completamente la sua vita, e viceversa. Cambiato dalla sua esperienza con Vivian, Edward sceglie di lavorare con un imprenditore per salvare la sua azienda invece di smantellarla, dicendo – forse per la prima volta – che la sua azione ha finalmente “un buon sapore”. Anche Vivian rifiuta la proposta di Edward di ricevere un assegno per uscire dalla strada, ma rimanendo più o meno nella stessa condizione. Ora si sente profondamente cambiata e decide di tornare all’università e dare al suo futuro una nuova opportunità.

L’incontro tra Edward e Vivian è stato un momento cruciale, un’esperienza trasformativa che li ha aiutati a ripensare le loro vite.

L’esperienza stessa della transizione è trasformativa. È un forno alchemico che permette di manifestare nel mondo visibile ciò che è cambiato nel tuo laboratorio interiore.

Accettare il richiamo a navigare una transizione richiede un atto di fede (e di amore per te stesso), che serve a lasciare gli ormeggi e – fidandosi del processo – concedersi il permesso di vivere il cambiamento.

Un atto non banale da fare per chi è abituato a controllare, ma anche l’unico che permette alla tua barca di lasciare il porto conosciuto e raggiungere altre rive.

E non ci arriverai simile a come sei partito, ma arricchito da quella stessa esperienza.

Trasformato.

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